a cura di Antonella Coluccia

Il Convegno Triennale di Milano ha dedicato la sessione iniziale dell’11 ottobre a questo tema di viva attualità, con tre interventi di grande interesse.

Il Prof. Andrea Gori, Direttore dell’U.O. di Malattie Infettive dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, nella sua lettura ha focalizzato con grande efficacia alcuni temi caldi della pandemia da SARS-CoV-2. In primo luogo, questa pandemia si sarebbe potuta prevedere?

Negli anni ’60 le istituzioni politiche americane avevano ritenuto ormai archiviate le malattie infettive dichiarando che in futuro al cancro e alle malattie cardiovascolari sarebbero state dedicate la maggior parte delle risorse disponibili per la salute. Purtroppo, questa previsione sarebbe stata smentita quando negli anni successivi le infezioni sarebbero tornate in forma epidemica o pandemica a causa degli spostamenti sempre più massicci e rapidi di merci e persone da un continente all’altro e con esse degli agenti responsabili delle malattie infettive, i virus e gli insetti loro vettori.

È così che è ricomparsa la malaria in Grecia e si verificano focolai di infezioni come la dengue, la chikungunya e l’encefalite veicolate dalle zanzare anopheles e tigre presenti anche in Italia. Nel 2014 il presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama, di fronte all’epidemia di Ebola, aveva preconizzato la necessità di essere pronti ad affrontare future pandemie globali. E’ celeberrimo il discorso di Bill Gates che nel 2015 metteva in guardia sul fatto che i microbi più che i missili avrebbero potuto causare milioni di morti nel mondo e che i governi continuavano ad investire contro i rischi di guerre nucleare piuttosto che di infezioni letali. Eppure, malgrado questi segnali, soltanto il 16% dei Paesi nel mondo ha preparato piani specifici per affrontare questo tipo di emergenza.

Altro punto focalizzato dal Prof. Gori è quello dei trattamenti farmacologici per il COVID-19, che ad oggi risultano esclusivamente di supporto, non essendo disponibili farmaci specifici. Dagli studi clinici i farmaci che hanno dimostrato una qualche efficacia sono il desametasone, in grado di ridurre la mortalità a 28 giorni in pazienti in ossigeno terapia e in ventilazione meccanica, rispettivamente del 20% e del 35% (Recovery Study Group. N Engl J Med. 2020:1436), non conferendo benefici nei pazienti che non necessitavano di supporto respiratorio; il remdesivir, recentemente approvato dall’EMA con prescrizione “subordinata a condizioni”, risultato efficace nel ridurre i tempi di recupero e la progressione della malattia, ancora una volta in maniera più rilevante nei pazienti con necessità di supporto respiratorio;  l’eparina a basso peso molecolare a dose profilattica, che riduce la mortalità in pazienti con saturazione arteriosa <90 % e la temperatura corporea >37°C). Grandi aspettative sono riservate agli anticorpi monoclonali specifici anti-SARS-CoV-2, sui quali sono in corso numerosi trial clinici in varie fasi di sperimentazione.

Naturalmente il vaccino anti-SARS-CoV-2 rappresenta l’approccio risolutivo, per il quale sono in corso più di 90 studi in tutto il mondo. I tempi di sviluppo di un vaccino, in genere superiori ai 10 anni, sembrano potersi ridurre a 18 mesi in questo caso, come ha stimato ottimisticamente anche il Prof. Antony Fauci. Diverse aziende produttrici concorrono per questo obiettivo fondamentale, da raggiungere nel più breve tempo possibile, facendo comunque i conti con la sicurezza e la provata efficacia. Una delle fasi su cui si cercherà di risparmiare tempo determinante è la disponibilità di industrie per la produzione del vaccino. In alcuni casi vaccini efficaci non sono diffusi perché mancano le strutture per una adeguata produzione, come nel caso recente del vaccino per l’herpes zoster. A questo scopo la Fondazione di Bill e Melinda Gates ha supporta la realizzazione di impianti industriali per la produzione di 7 diversi vaccini, facendo affidamento che almeno 2 di essi possano risultare efficaci e pronti per la distribuzione. Nuove idee e innovazioni in questo campo di indagine sono benvenute. Gori ha concluso sottolineando come in tempi di crisi le istituzioni abbiano due responsabilità ugualmente importanti: risolvere il problema con immediatezza, impedire che questo si ripresenti.


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La coagulopatia associata al COVID-19” è stato il tema affrontata nell’intervento successivo di Luca Spiezia, dell’Unità di Malattie Trombotiche ed Emorragiche dell’Università di Padova.

È stato ampiamente dimostrato che una elevata percentuale di pazienti con forme gravi di COVID-19 presenta eventi tromboembolici venosi ed arteriosi e che sono presenti alterazioni dell’assetto coagulativo con allungamento del PT, incremento dei livelli di fibrinogeno ed, in particolare, di D-dimero che hanno anche importante valore prognostico, correlandosi alla gravità clinica e alla mortalità. Inizialmente tali alterazioni erano state attribuite a fenomeni ascrivibili ad una DIC (Disseminated Intravascular Coagulation), ma si è poi chiaramente evidenziato come i meccanismi patogenetici per cui il SARS-CoV-2 induce la coagulopatia, peraltro non ancora ben chiari, sono differenti da quelli della DIC e anche della SIC (Sepsis Induced Coagulopathy).

L’elemento distintivo è una spiccata condizione di ipercoagulabilità, che il Dr. Spiezia ha ben evidenziato raccontando anche la sua esperienza personale con i test effettuati già nei primi pazienti ricoverati in rianimazione con la tromboelastometria. Un “pattern coagulativo” distintivo, anche dai quadri di altre forme di polmonite e che ben si correla con il grave rischio tromboembolico dei pazienti con COVID-19. Questo è il razionale dell’uso dell’eparina raccomandato da molti autori, il cui regime di trattamento è però ancora controverso e oggetto di studi.


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Antonella Coluccia (Centro Emofilia e Coagulopatie Rare dell’U.O. di Medicina Interna dell’Ospedale di Scorrano-ASL Lecce) ha infine trattato il tema: “COVID-19: Le implicazioni per i pazienti con emofilia e malattie emorragiche congenite”.

La World Federation of Hemophilia già all’inizio della pandemia ha identificato le problematiche essenziali legate all’infezione da SARS-CoV-2 per la comunità degli emofilici: l’isolamento dai Centri di riferimento per il rischio del contagio e il lockdown, le possibili difficoltà nell’approvigionamento dei farmaci, la gestione ospedaliera degli emofilici. Gli stessi argomenti sono stati riproposti in vari articoli pubblicati successivamente da parte di esperti nell’assistenza alle persone con emofilia, sottolineando soprattutto il ruolo della telemedicina. Le informazioni, invece, circa l’impatto epidemiologico dell’infezione nella popolazione di emofilici e pazienti con malattie emorragiche congenite (MEC) sono ancora molto scarse.

Ferme restando le terapie non specifiche sperimentate di cui si conosce la relativa efficacia, una delle questioni aperte è quella delle complicanze trombotiche da COVID-19 correlate ad una condizione di “ipercoagulabilità” acquisita. Può lo stato di ipocoagulabilità degli emofilici e delle persone con MEC rappresentare un “vantaggio” per questa particolare popolazione se affetta dalla COVID-19? Una casistica molto limitata riporta che su 9 pazienti con MEC sintomatici solo una donna con malattia di von Willebrand è risultata affetta da trombosi.

L’interesse delle implicazioni della COVID-19 sugli emofilici e sui pazienti con MEC ha portato a disegnare lo studio denominato MECCOVID-19, “Studio di coorte sull’impatto del COVID-19 nella popolazione italiana dei pazienti affetti da Malattie Emorragiche Congenite”, approvato quale studio da condurre sotto egida dell’AICE (Coordinatrici: Antonella Coluccia, Anna Chiara Giuffrida, Emanuela Marchesini).


Tutti i documenti dello studio e le informazioni per la partecipazione sono disponibili nella specifica pagina del sito nella sezione ‘Studi in corso’.