La rivista Blood Advances ha di recente pubblicato due documenti congiunti dell’American Society of Hematology (ASH), con l’International Society on Thrombosis and Haemostasis (ISTH), la National Hemophilia Foundation (NHF) e la World Federation of Hemophilia (WFH) dedicati alla malattia di von Willebrand (VWD). Si tratta delle Linee Guida rispettivamente per la diagnosi e per la gestione di questa che rappresenta la più comune malattia emorragica congenita ma, nel contempo, per la sua eterogeneità clinica, spesso oggetto di problemi di identificazione, inquadramento diagnostico e approccio di trattamento.

Queste Linee Guida sono il frutto del lavoro di un gruppo multidisciplinare comprendente specialisti del settore ma anche rappresentanti delle associazioni dei pazienti. Dall’analisi della letteratura disponibile sono derivate le raccomandazioni, la cui forza è stata valutata secondo il sistema GRADE (Grading of Recommendations Assessment, Development and Evaluation) e sulla base di considerazioni che riguardano i pazienti, i clinici, gli organismi regolatori ed i ricercatori. Ne derivano così indicazioni fortemente raccomandate (“Strong recommendations”) mentre, in altri casi, si può fornire dei suggerimenti (“Conditional recommendations”) o solo commenti e riferimenti di buona pratica clinica.

Qui di seguito i link ai documenti:

ASH ISTH NHF WFH 2021 guidelines on the diagnosis of von Willebrand disease
ASH ISTH NHF WFH 2021 guidelines on the management of von Willebrand disease

Nell’invitare a leggere con attenzione le due ampie linee guida, pubblichiamo alcuni spunti e commenti, che amplieremo via via grazie al contributo dei nostri redattori.

Diagnosi                      

a cura di Gabriele Quintavalle

La metodologia utilizzata dal Gruppo di Lavoro multidisciplinare si è rivolta a produrre una serie di indicazioni il più possibile pratiche e dirette, probabilmente per semplificare ed omologare un sistema di diagnosi e classificazione che sappiamo essere alquanto complesso. Sulla base di quanto emerso da una survey preliminare, il “panel” di Autori ha analizzato 11 “questioni prioritarie” da cui sono scaturite delle “raccomandazioni” o “suggerimenti”, a seconda della forza delle evidenze disponibili (a sua volta valutata tramite il sistema “GRADE”).

Gli argomenti analizzati vanno dall’utilizzo dei “Bleeding-Assessment Tools” (BAT) alle metodiche di laboratorio più affidabili; dalle indicazioni per una corretta classificazione del VWD tipo 2, fino ad affrontare questioni ancora poco definite come la classificazione e gestione dei pazienti con livelli di VWF tra 30 e 50% e l’aumento dei livelli di fattore con l’invecchiamento.

Di seguito una sintesi delle raccomandazioni:

BAT: Le raccomandazioni per l’utilizzo degli score sono più o meno forti a seconda del contesto in cui viene assistito il paziente e soprattutto della probabilità di diagnosi di VWD. In pratica, l’uso dei BAT è fortemente consigliato in un contesto di cure primarie dove, secondo le evidenze, ci si aspetta una bassa probabilità di diagnosi di VWD (circa il 3%). In tale situazione, gli score permetterebbero di discriminare i pazienti meritevoli di test di secondo livello. Gli Autori invece sconsigliano l’uso dei BAT quando la probabilità di diagnosi di VWD è più alta, ovvero in un contesto specialistico di secondo livello, dove i pazienti accedono per anamnesi emorragica positiva (probabilità stimata intorno al 20%) o in caso di familiarità di primo grado (vista la trasmissione autosomica dominante nella maggior parte dei casi, gli Autori stimano tale probabilità al 50%). Gli score diagnostici vengono considerati in questi casi non fondamentali poiché è più indicato procedere direttamente con gli esami coagulativi di ambito specialistico.

Già da questo capitolo le Linee Guida si discostano da un che probabilmente è la nostra pratica abituale, in cui i BAT rappresentano anche un punto di partenza per la valutazione del fenotipo emorragico del paziente. Inoltre, si presume che tutte le persone inviate a consulto specialistico abbiano seguito un corretto iter diagnostico, cosa che non sempre accade. In ultimo, e anche gli Autori esprimono tale perplessità, non sempre i medici curanti (o altri addetti alle cure primarie) hanno il tempo e la possibilità di sottomettere un questionario lungo e impegnativo. In ogni caso, non viene indicata alcuna preferenza per uno in particolare dei BAT esistenti ma si viene indirizzati alla pagina corrispondente del sito della WFH dove ci sono tutti gli score validati.

Dosaggio attività del VWF: Tema destinato a lasciare probabilmente un dibattito aperto, con una novità significativa rispetto a quanto finora riportato in altre pubblicazioni: Sulla base delle evidenze disponibili (comunque considerate non molto forti dagli Autori), il test suggerito (non raccomandato) per il dosaggio qualitativo del VWF a fini diagnostici è l’attività di legame del VWF alle piastrine attraverso la GPIb (VWF:GPIb), non il classico test del cofattore della ristocetina (VWF:RCo). Questa scelta sarebbe dettata da una minore variabilità del test di legame piastrinico rispetto al RCo, oltre ad un impatto meno rilevante del genotipo: alcuni studi, infatti, hanno dimostrato l’esistenza di varianti del gene VWF nella popolazione di origine Africana che danno luogo a ridotto legame alla ristocetina (con conseguente basso dosaggio del VWF) senza interessare l’attività di legame VWF:GPIb, che risulta invece nella norma, così come il fenotipo emorragico.

Aumento dei livelli di VWF con l’età: Questo dato è stato spesso riportato in letteratura (il primo studio citato è del 1987 in cui viene descritto un aumento annuale dei livelli di VWF di 0.01 UI/mL tra i 20 ed i 60 anni di età). Il quesito che si pongono gli Autori riguarda l’opportunità di rivalutare la diagnosi di VWD in coloro che presentano una normalizzazione dei valori. La risposta è ardua in quanto non ci sono dati certi su un eventuale miglioramento o remissione dei sintomi emorragici. Il suggerimento è quello di mantenere la diagnosi di VWD (una volta escluse eventuali altre coagulopatie), rimodulando tuttavia le indicazioni terapeutiche, laddove necessario.

Livelli “cutoff” per VWD tipo 1: Una questione ancora oggetto di discussione riguarda le persone con livelli di VWF tra 30 e 50%, condizione indicata in alcune pubblicazioni, anche recenti, come “low VWF”. In queste Linee Guida si raccomanda di estendere la diagnosi di VWD tipo 1 (definita per tutti i casi con VWF<30% a prescindere dai sintomi) a tutti i pazienti con una storia emorragica personale o familiare positiva e con livelli di VWF>30%. Tale raccomandazione deriva dall’alto numero di soggetti con sintomi emorragici pur con lieve riduzione del VWF riportato in alcuni studi, nonchè dall’intento degli Autori di non precludere l’accesso alle terapie a questi pazienti.

VWD Tipo 1C: viene così indicato un sottotipo di VWD tipo 1 (circa il 15-20% di tutti i casi di tipo 1) in cui si osserva un’aumentata clearance del fattore. Sebbene un aumentato rapporto tra propeptide (VWF pp) ed antigene (Ag) del VWF possa indicare una ridotta emivita del fattore (in quanto dopo la secrezione in circolo il VWF si dissocia dal pp e quest’ultimo non viene degradato), per identificare questa condizione gli Autori suggeriscono di effettuare un test alla DDAVP. Una ridotta clearance del VWF si tradurrà in un decremento >30% tra il dosaggio ad 1 e a 4h dopo la somministrazione del farmaco. Secondo alcune evidenze, questo dato si manifesta anche quando il rapporto VWFpp/VWF:Ag è normale, mostrando una maggiore affidabilità. La valutazione del rapporto VWFpp/VWFAg rimane consigliata nelle persone in cui sia controindicato o non possibile eseguire il test alla DDAVP.

VWD Tipo 2: nell’ultima parte del documento vengono fornite alcune indicazioni utili alla diagnosi, talvolta complessa, del deficit “qualitativo” di von Willebrand.

Sulla scorta di un alto numero di falsi negativi evidenziato da alcuni studi, viene suggerito (con un basso livello di evidenza) un rapporto VWF attività/Ag <0.7 per la diagnosi di VWD tipo 2 rispetto al tipo 1 (considerando pazienti con livelli ridotti di VWF).

Per la determinazione dei sottotipi di VWD 2 (2A, 2B e 2M), sebbene con livello di evidenza basso, viene attribuito lo stesso valore diagnostico al rapporto tra VWF Collagen Binding (CB) e VWF Ag e alla determinazione dei multimeri. Questa considerazione deriva dal fatto che nella maggior parte dei laboratori per il CB viene utilizzato collagene di tipo I o III, che è considerato un surrogato dei multimeri ad alto peso molecolare. Tuttavia, gli Autori non suggeriscono un cut-off per il rapporto VWF CB/Ag e sottolineano la necessità di ulteriori studi per determinare l’accuratezza di questi test.

Per quanto riguarda la diagnosi di VWD 2B, si suggerisce, laddove possibile, di effettuare la ricerca delle mutazioni associate con tale sottotipo, prevalentemente a livello dell’esone 28 del gene VWF. In questo modo l’indagine molecolare assume un valore anche maggiore rispetto al test di aggregazione alla ristocetina (RIPA), normalmente utilizzato per l’identificazione del VWD 2B. Questa considerazione deriva dalla difficoltà di inviare campioni “freschi” in laboratorio per l’aggregazione e dalla notevole variabilità nelle concentrazioni di ristocetina utilizzate. Per contro, sebbene l’indagine genetica non sia disponibile in tutti i centri, viene evidenziata la possibilità di inviare i campioni in un laboratorio dove venga effettuata regolarmente.

Per la diagnosi di VWD 2N, il panel attribuisce lo stesso valore al test di legame VWF:FVIII ed all’indagine genetica, consigliando tuttavia un counseling vista l’ereditarietà autosomica recessiva di questo sottotipo.

Al termine del documento gli Autori riportano di non aver considerato la forma “piastrinica del VWD (“Platelet von Willebrand”) ma rimandano allo specifico documento dell’ISTH recentemente pubblicato.

Gestione                     

a cura di Anna Chiara Giuffrida

Per quanto riguarda la gestione del paziente affetto da Malattia di von Willebrand, l’approccio terapeutico deve tener conto dei numerosi sottotipi di malattia, dei sintomi presentati dal paziente e dalle opzioni terapeutiche. Certo è che la gestione del paziente con VWD rappresenta una sfida a causa dell’alta variabilità dei sintomi e degli approcci clinici oltre che per la mancanza di forti evidenze che guidino le decisioni terapeutiche.

Profilassi: è il primo argomento considerato. Nei pazienti con VWD ed una storia emorragica di sanguinamenti importanti e frequenti può essere suggerita; i sintomi emorragici dovrebbero essere periodicamente rivalutati.

Uso della desmopressina: viene suggerito il test alla DDAVP nei pazienti in cui il VWF-Ag è inferiore a 0,30 IU/mL e l’uso della DDAVP rappresenta un’opzione terapeutica. Se non è disponibile la risposta alla dose-test, si suggerisce di non usare la desmopressina per il trattamento di un sanguinamento. Nei commenti si ricorda che la DDAVP non è una valida opzione terapeutica o è controindicata in alcune situazioni (nel vWD tipo 3, nel vWD tipo 2B, in caso di chirurgia maggiore a carco di organi critici come il SNC); inoltre, non dovrebbe essere somministrata a pazienti con malattie cardiovascolari, in età inferiore a due anni e nelle donne con un quadro di preeclampia.