a cura di Antonella Colluccia e Antonio Coppola 

Tutti i virus tendono a modificare in maniera più o meno rilevante la loro struttura, nel corso del tempo. Questi cambiamenti sono dovuti a mutazioni a carico del codice genetico del virus, che avvengono spontaneamente durante il processo naturale di replicazione e che possono risultare in variazioni della struttura delle proteine o nell’efficienza dei processi del ciclo replicativo che si riflettono sulle proprietà biologiche del virus. È questo il significato delle cosiddette ‘varianti’ dei virus, vale a dire un ceppo virale che presenta una o più mutazioni, che presenta caratteristiche antigeniche differenti rispetto al virus ‘wild type’ e, talora, anche diverse proprietà in termini di infettività, sensibilità a farmaci e a vaccini. L’impatto clinico delle varianti di un virus abbiamo imparato a conoscerlo bene con l’influenza stagionale, le cui epidemie sono sostenute da ceppi che ogni anno si presentano con mutazioni in genere minori, che richiedono l’aggiornamento delle formulazioni vaccinali; talora si generano però varianti con proprietà molto diverse, responsabili di pandemie aggressive per la maggiore infettività di ceppi verso i quali la protezione dell’immunità ‘di gregge’ non è efficace.

Anche il virus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia COVID-19 e identificato nel gennaio 2020, fino ad oggi ha prodotto in tutto il mondo centinaia di varianti. Anche per alcune di queste abbiamo sperimentato le conseguenze dal punto di vista clinico ed epidemiologico: basti pensare all’accelerazione della seconda/terza ondata della pandemia con la variante cosiddetta “inglese”, all’inizio di quest’anno, con picchi imprevisti di mortalità, e la sfida alla protezione da parte delle campagne vaccinali nel mondo della variante “indiana”, con la quale ci stiamo cimentando in queste settimane.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è deputata a monitorare con un team di esperti le mutazioni più significative del virus SARS-CoV-2 dal punto di vista epidemiologico e clinico in modo da attuare tutte le misure preventive di sicurezza. L’OMS ha deciso di impiegare per le “varianti chiave” del virus le lettere dell’alfabeto greco, allo scopo avere denominazioni semplici, facili da citare e da ricordare universalmente.

Le varianti del virus dimostratesi più aggressive per contagiosità sono quella inglese (B.1.1.7), oggi denominata “Alpha”, la sudafricana (B.1.351), chiamata “Beta”, la brasiliana (P.1) identificata come “Gamma” e due delle sub-varianti di quella indiana (B.1.617) definite “Delta” e “Kappa”.

Sono state descritte altre varianti potenzialmente meno aggressive o ancora non ben conosciute per le implicazioni epidemiologiche e cliniche. La variante “Eta”, identificata nel Regno Unito, della quale non si conosce il potenziale di trasmissibilità e la gravità dell’infezione. Probabilmente diminuisce la risposta immunitaria conferita dai vaccini o da precedenti infezioni. La variante “Epsilon” (B.1.427 e B.1.429) è predominante in California, e porta con sé la mutazione L452R, presente anche sulle varianti Delta e Kappa. La variante “Lambda” è l’ultima scoperta in ordine di tempo. Rilevata per la prima volta in Perù, si è diffusa rapidamente in oltre 80 nazioni e continua a mutare. Al momento costituisce il 6-10% di tutti i nuovi casi di infezione rilevati negli Stati Uniti. Anche questa variante sembra essere più contagiosa e causare sintomi più gravi rispetto alle altre. Sono tuttavia necessari ulteriori studi per confermare queste ipotesi. il suo comportamento epidemiologico e il suo potenziale aumento della resistenza agli anticorpi neutralizzanti sono sotto stretto controllo da parte delle autorità sanitarie.

Ma torniamo alle varianti che abbiamo avuto modo di conoscere meglio durante la pandemia. La variante Alpha, identificata per la prima volta in Inghilterra, possiede una trasmissibilità maggiore del 37% rispetto alle varianti conosciute in precedenza e ai ceppi non varianti. Questa è caratterizzata da ben 23 mutazioni rispetto al ceppo originario di Wuhan, 9 interessano la proteina spike, le restanti 14 sembrerebbero inibire la produzione di interferone da parte delle cellule infettate, rendendo in qualche modo il virus “invisibile” al sistema immunitario. La maggiore trasmissibilità causa un più elevato numero assoluto di infezioni e conseguentemente un incremento dell’incidenza di casi gravi e fatali.

Questa variante è, ad oggi, quella ancora di gran lunga prevalente in Italia: fino all’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) del 18 maggio u.s. risultava responsabile di circa 88% delle infezioni, pur con ampie fluttuazioni regionali, ma dall’ultima rilevazione rapida (flash survey) condotta dall’ISS e dal Ministero della Salute con i Laboratori delle Regioni, diffusa il 01.07, si è evidenziata una netta riduzione, circa 57%, a fronte dell’atteso incremento di altre varianti, in particolare di quella Delta, come già accaduto nel Regno Unito.

La variante Beta, identificata in Sud Africa, malgrado non sembri dotata di una maggiore trasmissibilità, è in grado di indurre un parziale effetto negativo nei confronti di alcuni anticorpi monoclonali (“immune escape“). Questo meccanismo di neutralizzazione della risposta anticorpale individuale potrebbe in qualche modo ridurre l’efficacia degli anticorpi prodotti dai vaccini, particolarmente quelli a mRNA.

La variante Gamma, caratterizzata originariamente in Brasile, ha dimostrato una maggiore trasmissibilità e un possibile rischio di reinfezione. Gli studi attualmente disponibili non evidenziano una maggiore gravità della malattia. In Italia la variante Gamma ha mantenuto una prevalenza relativamente ridotta ed è stata segnalata particolarmente in Umbria, Toscana, Lazio ed Emilia-Romagna.

Le varianti Delta e Kappa, rilevate per la prima volta in India, presentano una serie di mutazioni (E484Q, L452R e P681R) preoccupanti per la maggiore trasmissibilità, il rischio di re-infezione e per le complicanze microtrombotiche. Come accennato, i casi di infezione causati dalla variante Delta, fino a qualche settimana fa limitati a poche centinaia, risultano oggi pari a circa il 23%, in 16 Regioni, con un range da 0 a 76%. Nella recentissima flash survey non è stata identificata la variante Kappa, ma alcuni casi sono stati segnalati nella piattaforma integrata che raccoglie tutti i dati giorno per giorno.

Le altre varianti, inclusa quella Eta, mantengono una prevalenza molto bassa o addirittura assente.

Una domanda ricorrente, della massima importanza, è quella di conoscere l’efficacia dei vaccini attualmente in uso sulle varianti più aggressive del virus.

I primi dati confermano che tutti i vaccini attualmente disponibili in Italia sono efficaci contro la variante Alfa del SARS-CoV-2. Dalle osservazioni disponibili (dati real-world raccolti negli USA e uno studio inglese pubblicato su Lancet) risulta che quanti hanno ricevuto solo la prima dose delle due previste dai vaccini a doppia somministrazione sono meno protetti contro l’infezione da variante Delta (pari a circa il 40%) rispetto a quella da altre varianti (76-80%), indipendentemente dal tipo di vaccino utilizzato. Per contro, Il completamento del ciclo vaccinale protegge contro la variante Delta quasi paragonabile a quella osservata contro la variante Alpha.

Questi risultati inducono a praticare non solo nella maniera più ampia possibile la vaccinazione, ma anche con il ciclo completo di due somministrazioni, perché si possa raggiungere al più presto un’efficace immunizzazione “di popolazione” contro il virus SARS-CoV-2 e le sue temibili varianti.

 


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