a cura di Alessandro Gringeri
Terapia [sost- fem.] – studio ed attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per combattere le malattie.
Cura [sost. fem.] – interessamento solerte e premuroso di qualcuno o di qualcosa.
Usiamo spesso indifferentemente questi termini come sinonimi, ma mentre l’uno ha come fine il combattere la malattia, l’altro di occuparsi del malato.
Nel 1988, Arthur Kleinman, il noto psichiatra e antropologo di Harvard, distinse tre diverse dimensioni vissute dal malato[1]: la prima (DISEASE) è la malattia da un punto di vista esclusivamente biomedico, un insieme di sintomi e segni clinici, necessari per la diagnosi e la terapia; la seconda (ILLNESS) rappresenta l’essere ammalati, la sofferenza, con il suo bagaglio di emozioni, pensieri, ragionamenti, dubbi, paure e l’impatto sul mondo e le relazioni del paziente; la terza (SICKNESS) rappresenta la malattia come percepita dalla società, che include, esclude o discrimina, in altre parole “l’etichetta che infesta” il corpo del malato.
Di conseguenza ne deriva che una Medicina che volesse prendersi “cura” del malato dovrà non solo individuare la malattia di cui soffre e prescrivergli la terapia appropriata, ma avere anche “cura” degli aspetti soggettivi dell’esperienza di malattia nello specifico contesto familiare e sociale, storico e culturale.
Non meraviglia pertanto come l’approccio biomedico risulti o divenga spesso impotente nei confronti delle malattie “incurabili” o meglio senza una terapia specifica, o negli stadi terminali di malattia o di fine vita, e di fronte alla scarsa compliance e soddisfazione dei pazienti con malattie croniche.
Come possiamo accedere a queste altre dimensioni vissute dal malato del quale vogliamo prenderci cura? La risposta sta nel raccogliere e analizzare il racconto di malattia del paziente, il suo contenuto e la narrativa, cioè le forme che questo racconto prende. Infatti, ogni paziente ha una storia che va al di là dei sintomi che lo portano nello studio del medico, una storia che dovrebbe spingere il medico a domandarsi “Come posso trattare questa malattia?” e “Come posso aiutare il mio paziente?”[2].
Si tratta di affiancare alla Medicina basata sulle Evidenze una Medicina basata sulle Narrazioni, la Medicina Narrativa. Rita Charon, teorica della Medicina Narrativa e direttrice del Dipartimento di Medicina Narrativa della Columbia University, spiega come “la medicina praticata con competenze narrative possa essere utile per riconoscere, assorbire, interpretare ed essere (com)mossi dalle storie di malattia”.[3]
Si tratta proprio di andare oltre la parola detta, analizzando come il paziente si esprima sulla sua malattia, cioè la sua personale narrazione, il racconto. La Medicina Narrativa è quindi “una scienza che aiuta tutti i professionisti del sistema sanitario ad accogliere con attenzione le esperienze sia delle persone che convivono con una patologia, sia di coloro i quali si prendono cura di loro, attraverso la ricerca e la pratica clinica”[4].
Una scienza davvero, che si basa su un sapere e su specifiche metodologie caratterizzate dai seguenti elementi di processo: la modalità della comunicazione, scritta o orale; la trama del racconto, la cronologia, le metafore, i silenzi; le fonti della narrazione, la persona in cura, la famiglia, i caregivers, gli operatori sanitari, i rappresentanti delle associazioni di pazienti e persino gli amministratori dei centri medici; gli strumenti di raccolta delle narrazioni, generalmente testimonianze libere, ma anche interviste semi-strutturate, la fiaba, un racconto preimpostato; l’ascolto, senza “pre”giudizio e giudizio, per conoscere e riconoscere elementi nuovi, per stabilire un contatto più profondo; l’integrazione con i metodi quantitativi di analisi.
In conclusione, bisogna a mio parere cominciare a sensibilizzare il mondo sanitario, le università, le associazioni dei pazienti, tutti i cittadini della necessità della Medicina Narrativa. Questa potrà migliorare le cure dei pazienti, il rapporto medico-paziente (quanto stanno aumentando le aggressioni a professionisti della sanità e la litigiosità legale?), la qualità di vita dei malati, addirittura la qualità di vita degli operatori sanitari, essi stessi vittime di frustrazioni ed esaurimenti nervosi, che li portano talvolta all’abbandono stesso della professione.
Se questo breve articolo fosse riuscito a stimolare il vostro interesse verso la Medicina Narrativa, mi farebbe piacere conoscere i vostri commenti, potrei consigliare ulteriori letture e approfondimenti e aprire un vero dialogo tra tutti coloro che hanno a cuore la cura del malato e non solo.
[1] AM. Kleinman, The Illness Narratives: Suffering, Healing and The Human Condition. New York: Basic Books (1988).
[2] Narrative Medicine: Every Patient Has a Story | AAMC, accesso effettuato il 10/01/2023.
[3] R. Charon, Narrative Medicine, Honoring the stories of illness. Oxford University Press (2006). [L’edizione italiana – Medicina Narrativa-Onorare le storie dei pazienti – è stata pubblicata da Raffaello Cortina Editore nel 2019.]
[4] ISTUD e la medicina Narrativa, accesso effettuato il 09/01/2023.
Ringrazio calorosamente l’Autore per questi spunti di riflessione e mi auguro davvero che si avvii un vivace scambio di opinioni.
Molti di noi, per fortuna, esercitano spontaneamente la Medicina Narrativa, per indole o anche per la tipologia del rapporto che si instaura con i nostri pazienti, di cui nel tempo impariamo a conoscere ‘il mondo’.
Ora forse riusciremo a farlo meglio, a dispetto degli assalti continui di burocrazia, budget e di tutto ciò che ha deturpato in questi anni la nostra professione.
Praticare la Medicina Narrativa: bisogna volerlo fare, e tra chi si occupa di patologie congenite rare e croniche siamo in tanti a volerla praticare. Bisogna però poterlo fare, e purtroppo la mancanza di tempo e di personale ci impedisce spesso di farlo. Bisogna anche saperlo fare; non si tratta semplicemente di lasciare il malato a raccontare e raccontarsi, ma di saperlo ascoltare. Michel de Montaigne (1533-1592) scrisse tra i suoi famosi aforismi pubblicati nella sua opera “Saggi” che “la parola è metà di chi parla e metà di chi ascolta”.
Un commento anche da parte mia.
Ormai lottiamo contro il tempo per prenderci cura dei pazienti: si pretende da noi medici, cronometro alla mano, una manciata di minuti per visita (per lo più da occupare in burocrazia!). Per non parlare della pretesa di chiamare le persone per numero invece che per nome nascondendoci dietro la parola privacy. E tante altre cose che mi fanno ribellare.
Ho la fortuna di aver imparato da grandi medici che una persona va accolta, ascoltata e curata con tutte le sue debolezze ed i suoi punti di forza; cerco di non dimenticare che quando abbiamo fatto il giuramento di Ippocrate abbiamo giurato di “metterci a servizio dei pazienti” secondo scienza e coscienza: non si parla di burocrazia, protocolli e qualità…
La medicina narrativa alla fine è un modo moderno di fare il medico alla “vecchia” maniera.
Ben venga!